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Scuola, il timore diffuso

Alla vigilia dello sciopero generale del 30 ottobre, Luciano Corradini, presidente dell'Associazione italiana docenti universitari, sottolinea: «Urge un vero incontro tra due "culture" diverse di scuola»

29 Ottobre 2008

29/10/2008

In concomitanza con l’approvazione al Senato del decreto Gelmini, occupazioni, autogestioni, sit-in, agitazioni e manifestazioni sono in corso nelle scuole e nelle università, tra le altre città, a Roma, Milano e Napoli. Culmineranno nello sciopero generale (e relativa manifestazione nazionale) del 30 ottobre. Con Luciano Corradini, pedagogista, presidente dell’Associazione italiana docenti universitari, abbiamo parlato delle modalità e delle motivazioni della protesta studentesca.

Protestano insieme studenti, docenti e, in qualche caso, anche genitori…
In effetti questa è una novità della protesta in corso nelle scuole e nelle università. A fare da piccolissimo detonatore è stato il fatto che il ddl ha recato tra le sue evidenze il voto in condotta, in realtà in qualche modo già presente nell’ambito dello Statuto delle studentesse e degli studenti di dieci anni fa, e poi rinnovato con inasprimenti di carattere disciplinare nel 2007, che prevedono la possibilità di sospendere i ragazzi per più di 15 giorni e poi di far perdere loro l’anno. Uno degli aspetti che può aver insospettito gli studenti è che si tratti di una manovra repressiva, e in questi casi tende a scattare la solidarietà. L’aria però era già abbastanza carica: avendo un futuro molto incerto, quando si rischiano di perdere alcuni “benefici” del presente gli studenti vedono minacciato il loro status di sicurezza. Il timore più diffuso è che ci siano pochi soldi, e che gli adulti – con l’idea dell’ autonomia che ormai circola da diversi anni – vogliano in realtà privatizzare la scuola. La possibilità, inoltre, per le università di trasformarsi in fondazioni, per ricevere quattrini anche dal mercato, ingenera nella popolazione il timore che lo Stato abbandoni le istituzioni pubbliche per valorizzare il privato, lasciando di fatto gli studenti al loro destino.

È d’accordo con chi afferma che, se nel 1968 i giovani protestavano contro un’eredità del passato, considerata negativa, oggi protestano contro chi “ruba” loro il futuro?
Certamente i giovani di oggi sono stati in gran parte depredati del futuro, perché le nostre generazioni hanno speso anche quello che non avevano: basti pensare al problema del debito pubblico. Di fronte alle pensioni a rischio, al “posto fisso” diventato un sogno, alla difficoltà di farsi una famiglia o di godere di una certa tranquillità almeno nel presente, le nuove generazioni s’inquietano. È anche vero che da noi, anche tra gli insegnanti, esiste una certa cultura che si culla nell’esistente, piuttosto che tentare le strade di un’innovazione rischiosa: quello che, tuttavia, colgono soprattutto gli studenti è il segnale che, se si attacca l’istituzione educativa pubblica, devono cominciare a temere anche loro, perché si minaccia il loro status. Perde rilevanza la scuola pubblica, e così l’unica alternativa sono le scuole all’estero o quelle private.

Il presidente Napolitano ha rivolto un appello alla responsabilità: ci sono ancora, secondo lei, i margini per un “dibattito pubblico” sulla scuola?
Il vero punto è che tra la cultura di sinistra più responsabile e quella di destra più illuminata finora non c’è stato un vero incontro: l’abitudine prevalente è ormai soltanto quella a delegittimare la parte avversa. Manca, in altre parole, l’autorevolezza sufficiente di una famiglia – per usare una metafora – che si metta d’accordo sulle priorità, nel fare sacrifici, in modo da ristabilire un clima di fiducia. In altre parole, dovremmo avere maggiore forza politica, il che implica anche idee sufficientemente chiare sul da farsi, consapevolezza di rischi e sacrifici, ma nello stesso tempo impegno ad andare avanti con coraggio, cercando intese con gli altri. Lo scenario che sembra profilarsi è invece quello di una battaglia politica per portare a termine un’operazione: c’è una sconnessione, insomma, tra il momento politico decisionale e le problematiche concrete su cui occorre trovare una soluzione. Governare non vuol dire farsi la propria scuola: sicuramente la riforma della scuola va portata avanti, ma in casi come questi esiste uno “stile” che diventa sostanza”.

Da dove ripartire?
Per esempio, da una sorta di “alfabetizzazione civile”. L’occasione da cogliere potrebbe essere quella dell’introduzione – nelle scuole di ogni ordine e grado – della nuova materia “Cittadinanza e Costituzione”. È una sperimentazione che interessa tutti gli istituti, dalla materna alle superiori, ed è prevista una mobilitazione di tutti gli Uffici scolastici, anche attraverso corsi a distanza d’intesa con i costituzionalisti. L’obiettivo è capire come si fa nella scuola a studiare la Costituzione nella prospettiva delle competenze da offrire ai ragazzi, sia a livello di conoscenze, sia a livello di atteggiamenti e di motivazioni. La Costituzione non serve solo per dire no al bullismo: è un “tesoro di famiglia” non ancora abbastanza utilizzato.