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Cina, l’eredità di Mao

Contraddizioni non secondarie e inaccettabili di un Paese che offre un'immagine più aperta e liberale, ma in realtà si fa forte di un potere cinico e repressivo

5 Giugno 2008

18/03/2008

di Riccardo MORO

«Ogni comunista deve assimilare questa verità, che il potere politico nasce dalla canna del fucile». Era il 1938 e Mao Tse Tung delirava senza freni scrivendo il suo Problemi della guerra e della strategia, abbondantemente citato – insieme a numerose altre perle difficilmente uguagliabili per arroganza e inconsistenza – nel mai rimpianto e tristemente famoso “libretto rosso”.

Pubblicato nel 1966, il libretto doveva offrire una guida alle guardie rosse impegnate nella Rivoluzione culturale che, oltre a distruggere buona parte del patrimonio culturale cinese, fece un numero di vittime difficilmente misurabile con precisione, ma che tutti stimano in milioni, da aggiungere agli altri milioni di morti provocati nelle altre fasi del potere di Mao.

Oggi la Cina si presenta nei salotti e nei mercati internazionali proponendo un’immagine diversa, più moderna e liberale. Ha aperto al mercato e ha chiesto e ottenuto l’ingresso nell’Organizzazione mondiale del commercio, dopo essersi già accaparrata un seggio permanente nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.

Il governo del nuovo leader appena riconfermato, Hu Jintao, ha intensificato gli inviti a Paesi e imprese straniere, soprattutto occidentali, a investire nell’immenso Paese che, anche grazie a questi investimenti, sta crescendo economicamente a ritmi notevoli, creando una nuova realtà industriale internazionale che si sta proponendo in molti settori non più solo come terzista, ma con progetti e marchi propri, anche se non sempre originali. La consacrazione della nuova Cina è prevista con le Olimpiadi di Pechino in agosto. Un immenso investimento economico, politico e di immagine per la leadership cinese.

In questo nuovo corso l’insegnamento di Mao sembra lontano, dimenticato. In realtà la sua effige campeggia tuttora in piazza Tiananmen all’ingresso della Città Proibita, quasi a ricordare chi è titolare davvero delle caratteristiche di eternità che un tempo si attribuivano all’imperatore. Ed è riprodotta su tutte le banconote del sopravvalutato renmimbi, la moneta cinese che sta finanziando l’avanzata economica.

Ma guardando al di là della facciata della Cina contemporanea, l’eredità di Mao non sembra essere viva solo nelle riproduzioni. È preoccupante il cinismo del potere. Si sta verificando una pericolosa divisione tra zone rurali, estremamente povere e sostanzialmente dimenticate, e aree urbane industrializzate, dove l’economia decolla insieme al lusso e all’imitazione dei consumi occidentali, rinnovando il disprezzo della componente sociale contadina che caratterizzò la formazione della Repubblica popolare. Analogo disprezzo è verso i lavoratori industriali, la cui inadeguata tutela rende “competitive” molte imprese cinesi.

Anche in politica estera l’elemento caratterizzante è il cinismo. La Cina sta letteralmente sotterrando di denaro i Paesi a basso reddito, soprattutto africani, con prestiti che fra qualche anno si riveleranno bocconi avvelenati. Apre rapporti commerciali con i Paesi impoveriti, approfittando della loro vulnerabilità, funzionali solo alla sua necessità di approvvigionamento di materie prime a basso costo. Appoggia governi come il Sudan nel genocidio in Darfur o la Serbia contro il Kosovo. E ancora, disprezza la libertà di espressione, con tutti i corollari di limitazioni alla stampa libera internazionale, insieme a un uso spregiudicato della violenza, come ai tempi di Mao.

Non stiamo proponendo una nuova paura dei comunisti, affermata oggi solo da chi si sente in campagna elettorale permanente e non trova argomenti migliori. Stiamo constatando che accanto a una trasformazione di indubbio interesse la Cina sta mantenendo contraddizioni assolutamente non secondarie e inaccettabili. Lo si vede in questi giorni in Tibet.

I tibetani hanno cercato di usare l’occasione delle Olimpiadi per attirare l’attenzione del mondo su quello che il Dalai Lama ha chiamato «genocidio culturale». Si riferiscono non tanto ai morti della Rivoluzione culturale (che si stima abbia fatto 1,2 milioni di vittime in Tibet), quanto al continuo invio di “coloni” cinesi e al pugno di ferro nei confronti dei buddhisti tibetani cui è di fatto vietata la libertà di culto e di parola.

Hu Jintao, il leader cinese, ha ritenuto fastidiose le manifestazioni tibetane di questi giorni e ha cercato di fermarle con la violenza. Non è la prima volta. Nel 1989 la rivolta dei giovani di piazza Tiananmen era stata preceduta da una sollevazione a Lhasa, la capitale tibetana. Fu fermata nel sangue, sperimentando lo stile che sarebbe stato replicato qualche settimana dopo a Pechino. Segretario del Partito comunista a Lhasa era proprio Hu Jintao, che venne premiato per quella prova. Oggi manifesta la sua coerenza e non esita a coprirsi di ridicolo accusando il Dalai Lama di essere responsabile della violenza e dei numerosi morti.

Una nuova Cina è di moda nel mondo. Ma ricorda bene che il suo potere nasce dalla canna del fucile. Forse sarebbe bene tenerlo presente in modo più evidente quando discutiamo di accordi commerciali o ci prepariamo a partecipare alle Olimpiadi.