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Aldo Moro, l’eredità di uno statista

A trent'anni dal suo rapimento, non va ricordato solo come prigioniero e vittima della barbarie delle Brigate Rosse; occorre recuperare il significato del suo contributo politico e culturale, fondato sulla capacità di intuire i cambiamenti e sull'attitudine al dialogo

5 Giugno 2008

14/03/2008

di Giorgio CAMPANINI

Un grave rischio incombe sulla stagione che si apre in questi giorni, e che certo continuerà a lungo, quella cioè caratterizzata dalla memoria del rapimento di Aldo Moro, dei drammatici giorni che a esso fecero seguito, della tragica conclusione finale: il rischio, cioè, che tutta l’attenzione si concentri su questo “ultimo”, ferito e talora disperato Moro-uomo, lasciando invece nella penombra, o addirittura relegando nell’ombra, il Moro-politico, il grande statista e il lucido pensatore.

Come se fosse più importante stabilire quanti colpi siano stati sparati per ucciderlo o in quali precisi luoghi egli è stato relegato (dando così luogo a una memorialistica spesso azzardata e fantasiosa), piuttosto che quale sia stato il significato della sua opera di statista e l’apporto del suo pensiero alla società italiana.

È comprensibile che, a volte, la cronaca prenda il sopravvento sulla storia, ma – a trent’anni di distanza da quegli eventi – occorrerebbe essere capaci di uno sguardo d’insieme che sappia travalicare lo svolgersi di quei drammatici giorni. Sarebbe, oltretutto, svilire la memoria di Moro ricordarlo soltanto come prigioniero delle Brigate Rosse, come un malato lasciato senza medicine e come uomo abbandonato a se stesso, e non come lucido e grande statista.

Qual è stato, complessivamente, l’apporto di Moro alla vita nazionale e quale importanza ha avuto il suo ruolo, la cui rilevanza è stata di fatto riconosciuta dai brigatisti allorché l’hanno scelto come principale bersaglio della loro follia omicida, a differenza di altri, apparentemente (e istituzionalmente) più rilevanti? La risposta a questo interrogativo ci sembra debba essere ricondotta a due qualificanti aspetti della figura di Moro politico e statista: la sua capacità di intuire i cambiamenti, la sua attitudine al dialogo.

Che la società italiana degli anni Settanta conoscesse un profondo cambiamento – sullo sfondo della crisi delle ideologie – erano stati non pochi a intuirlo (ma non i brigatisti, ciechi al corso degli eventi e accecati dalle ideologiche lenti deformanti che si ostinavano a portare); ma nessuno come Moro ha colto le linee e le direttrici di un cambiamento che non era soltanto la prosecuzione dei processi di modernizzazione iniziati già negli anni Cinquanta e che sarebbe stato destinato, come in effetti poi è avvenuto, a trasformare profondamente il volto della società italiana.

Gli scritti e i discorsi di Moro rivelano questa sua grande capacità di leggere il corso degli avvenimenti, in un modo che nessun altro politico del suo tempo è stato capace di eguagliare. Leggere quelle pagine – le sue note sui giovani, sul nuovo necessario volto della scuola, sul radicale mutamento della “questione meridionale”, e così via – significa, un poco malinconicamente, misurarsi con una serie di occasioni perdute, che forse non sarebbero rimaste tali se Moro avesse potuto portare avanti il suo disegno di modernizzazione.

L’altro aspetto caratterizzante il pensiero e l’azione politica di Moro è stata l’attitudine al dialogo (nel senso alto del termine, non nel segno delle defatiganti e, alla fine, sterili mediazioni che spesso gli furono ingiustamente attribuite). Un dialogo a tutto campo, fondato sulla convinzione che era finito il tempo delle barricate e delle contrapposizioni frontali e che il Paese avrebbe dovuto trovare un terreno di incontro fra tutte le sue tradizioni, compresa quella comunista.

Quello che venne talora descritto come un machiavellico espediente per far permanere al potere la Democrazia Cristiana era invece un lucido progetto di pieno reinserimento nello Stato di tutte le grandi componenti, ideali e sociali della Nazione.

La violenza delle Brigate Rosse ha ostacolato, e per lungo tempo impedito, sia un’effettiva resa dei conti con la modernizzazione, sia un incontro che non fosse soltanto strumentale fra i partiti, ma anche e soprattutto fra le culture. Questi due obiettivi rimangono ancora davanti alla società italiana; né raggiungerli sarà possibile senza riandare alla lezione del Moro statista. Se ci si soffermerà soltanto sul Moro vittima e prigioniero, allora le Brigate Rosse avranno vinto una seconda volta.