Share

Santa Sede

Aprire alla vaccinazione ai sacerdoti

Interviene il cardinale Stella, prefetto della Congregazione per il clero: «Categoria a rischio. Svolgono un servizio socialmente utile». Una riflessione su come la Chiesa si prepara a uscire dalla pandemia

di Riccardo BENOTTI

3 Maggio 2021

«Un sacerdote che sia fedele alla sua vocazione e alla sua missione, e che quindi si spenda esercitando il proprio ministero in parrocchia, nelle carceri, negli ospedali, potrebbe essere considerato come parte di una “categoria a rischio”, per lo svolgimento di un servizio “socialmente utile”». Lo afferma il cardinale Beniamino Stella, prefetto della Congregazione per il clero della Santa Sede, in merito all’opportunità di aprire alla vaccinazione ai sacerdoti.

Nel primo anno di pandemia sono morti 269 sacerdoti del clero diocesano a causa del Covid-19. Che prezzo ha pagato la Chiesa?
È evidente che, come altre componenti della società, anche la Chiesa ha pagato un prezzo alto a causa della pandemia e delle sue conseguenze, penetrate in profondità nella vita delle persone, scuotendo e a volte demolendo le abitudini quotidiane. La Chiesa non è stata, e non è esente dagli effetti di tale dramma, in primo luogo in ragione della morte di tanti suoi ministri, non pochi dei quali colpiti dal virus mentre si adoperavano generosamente per far sentire al Popolo di Dio la vicinanza dei suoi pastori e non far mancare loro il conforto dei sacramenti e dell’annuncio della Parola di Dio. Quei sacerdoti hanno veramente donato la loro vita sino all’ultimo istante, cogliendo l’“opportunità” della pandemia per vivere in pienezza il loro “eccomi” alla chiamata del Signore, pronunciato il giorno della loro ordinazione. Tra i tanti meritevoli di speciale ricordo, mi è grata la memoria di don Giuseppe Berardelli, di Bergamo, deceduto dopo aver rinunciato al respiratore per donarlo a un malato più giovane. In aggiunta alla perdita di tanti ministri, riterrei poi – ma su questo non mi dilungo – che la Chiesa stia soffrendo per la situazione attuale a causa dell’impossibilità di avere incontri in presenza, o comunque solo con limitazioni e numeri ridotti. Per quanto videoconferenze e supporti informatici siano stati di grande aiuto, per noi cristiani, per i sacerdoti restano insostituibili la vicinanza e la relazione interpersonale, vissute nell’aggregazione, nel servizio e nella preghiera in comune.

È arrivato il momento di riconoscere il servizio sociale che i sacerdoti svolgono e prevedere l’accesso al vaccino per i più esposti ai rischi del contagio?
Si tratta di una materia che dovrebbe essere oggetto di attenzione da parte della autorità competenti, civili ed ecclesiastiche. La mia personale opinione, comunque, è che un sacerdote che sia fedele alla sua vocazione e alla sua missione, e che quindi si spenda esercitando il proprio ministero in parrocchia, nelle carceri, negli ospedali, eccetera… potrebbe essere considerato come parte di una “categoria a rischio”, per lo svolgimento di un servizio “socialmente utile”. In tal senso mi piace ricordare a titolo di esempio quanto mi ha raccontato mesi l’arcivescovo di una grande città dell’America Latina. All’inizio della pandemia l’arcivescovo dovette ritirare i cappellani dagli ospedali, essendo per lo più sacerdoti avanti con gli anni, a loro volta a rischio contagio. In risposta a ciò altri presbiteri più giovani si sono offerti volontari per il servizio in ospedale, ricevendo dalle autorità civili il permesso e la dotazione di un adeguato “abbigliamento” per esercitare in sicurezza il loro ministero. In tal modo, ha detto l’arcivescovo, nella sua Diocesi nessuno che lo desiderasse è morto senza sacramenti o è stato ricoverato senza ricevere anche assistenza spirituale. Ecco, questo mi sembra un esempio felice di cooperazione tra autorità civili ed ecclesiastiche per rendere possibile ai sacerdoti – almeno a quelli “in cura d’anime” – l’esercizio del ministero, come oggi potrebbe avvenire facilitando la somministrazione del vaccino.

La distanza tra clero e popolo che si è creata durante il lockdown ha acuito in certi casi il senso di solitudine di alcuni sacerdoti. La pandemia ha aggravato una situazione già esistente? Bisogna pensare a forme di vita e di socialità diverse per il clero?
Buttando all’aria le impostazioni della vita quotidiana e relazionale, non solo dei preti, la pandemia ha indubbiamente provocato situazioni di sofferenza psicologica anche nei pastori, separati fisicamente dal loro gregge. Se ciò è indubbio, non vorrei però generalizzare. Se per tutti i preti è stato un tempo di sofferenza, non pochi hanno saputo viverla in maniera proficua, cercando nuove forme di vicinanza ai loro fedeli, magari pregando di più e rafforzando la propria intimità con il Signore, nonché coltivando i rapporti fraterni con i confratelli con i quali alcuni condividono il tetto. Vorrei dire che forse la pandemia ha messo impietosamente a nudo zone d’ombra e fragilità personali che in precedenza venivano come “anestetizzate” dalla frenesia degli impegni e delle attività pastorali. Non potendo più fare questo, ci si è visti allo specchio e probabilmente qualcuno si è sentito sin troppo gravato dal peso della propria situazione. Anche se i preti diocesani non sono monaci né eremiti, mi piace pensare che un sacerdote non sia mai solo, proprio in ragione di una vita spirituale curata e della abitudine a vivere il suo tempo alla presenza del Signore. In Lui si trova la forza principale della vita del prete, la roccia su cui poggiarla, anche nei momenti in cui le relazioni con confratelli e fedeli e gli impegni del ministero vengono meno. In questo senso i sacerdoti anziani e malati sono spesso buoni “maestri” per i più giovani, mostrando con la loro vita che quando le forze e le possibilità pian piano declinano resta Dio solo e l’amore per lui. Penso a un prete brillante e capace, che si è trovato prigioniero in un letto di ospedale a causa del virus, e lì ha dovuto imparare ad abbandonarsi, necessariamente, all’amore gratuito di Dio e del prossimo, ricevendo il dono della comunione ogni giorno durante il ricovero, sino alla guarigione, grazie alla premura di una dottoressa, che non ha voluto fargli mancare la vicinanza del Signore. Ho in mente anche un sacerdote, parroco per tanti anni, ammalatosi di Sla e vissuto per oltre un decennio attraverso un declino progressivo, ma solo fisico. Infatti, la sua forza umana e la sua profondità spirituale sono rimaste intatte sino alla fine. Sinché ha potuto ha dettato omelie quotidiane a chi lo assisteva e negli ultimi tempi le scriveva lui stesso, tramite gli occhi, grazie all’aiuto della tecnologia.

La Chiesa ha dato prova di coraggio in questo tempo difficile?
I giudizi assoluti sono pericolosi, soprattutto in situazioni e contesti come l’attuale, quando l’emergenza non è ancora finita. Posso dire di essere rimasto edificato da tanti atti di coraggio, di vescovi, preti e fedeli laici, che hanno saputo mettere da parte le proprie fatiche personali per andare incontro agli altri. È bello ricordare la “pastorale del telefono e dei social” che tanti vescovi e parroci hanno portato avanti, ma merita una speciale menzione la generosa attività dei giovani e degli adulti che si sono messi a disposizione delle loro Caritas diocesane, per non far cessare in un tempo difficile il flusso di aiuti verso i poveri, vecchi e nuovi. Attraverso tanti volti, che mi vengono in mente, penso di poter dire che la Chiesa, come Popolo di Dio nel suo insieme, ha avuto il coraggio di non lasciarsi schiacciare dal virus, che pure l’ha messa a dura prova; il coraggio di osare azioni nuove, più o meno felicemente riuscite, per portare vicinanza e aiuto ai più bisognosi e per rincuorare gli smarriti; il coraggio di avere una parola di speranza e di coraggio da dire al mondo intero, come ha fatto Papa Francesco il 27 marzo 2020, in una piazza San Pietro fisicamente deserta, ma forse mai così piena di attenzione, emozioni, aspettative e bisogno di risposte.

Che Chiesa uscirà dalla pandemia e, soprattutto, che tipo di clero?
A livello ecclesiale e di organizzazione pastorale – mi passi la frase fatta – credo che nulla sarà più come prima. Le prassi pastorali che erano sostenute solo dall’abitudine e non erano più in grado di alimentare la fede del Popolo di Dio probabilmente cadranno. Compito dei pastori sarà non avere fretta di tagliare “rami quasi secchi” senza aver pensato prima a vie nuove con cui sostituirli, adatte alla loro comunità concreta e non frutto di astratte elucubrazioni teologico-pastorali. Tutti hanno potuto fare esperienza di come le costruzioni e i progetti umani siano fragili e a rischio di essere spazzati via in un attimo, ce lo ha mostrato la pandemia. In conseguenza di ciò, forse, più persone incominceranno di nuovo a farsi domande sul senso della loro vita, sulle priorità che conviene darsi, sul valore delle relazioni umane, dell’“essere” sull’ “avere”, per così dire. Di fronte a tali crescenti domande, i pastori avranno il “tesoro” di Cristo, la sua Parola da annunciare e il suo Amore da testimoniare. Ecco, mi piacerebbe che il clero fosse consapevole di questo, che ricentrasse la propria vita e la propria vocazione in Cristo, e ritrovasse con sempre maggiore forza lo slancio missionario di andare ad annunciare la gioia del Risorto, portando la sua luce, in un mondo su cui incombe l’ombra della morte, che il virus ha reso più evidente. Ora che l’inganno dell’uomo “padrone del mondo” è stato nuovamente smascherato – si tratta di una illusione che di tanto in tanto riemerge nel corso della storia, da Babele in avanti – rimane la riscoperta dell’essere figli dell’unico Signore, che non ci abbandona e ci dà forza per vivere nella sua pace anche le vicende più drammatiche.