Share

Afghanistan

Accordo Usa-Talebani, un missionario: «Un primo passo verso la pace»

Il barnabita Giovanni Scalese: «Abbiamo pregato tanto in questi anni, ora abbiamo una grande speranza, consapevoli però delle difficoltà che si frappongono fra una dichiarazione di intenti e i risultati effettivi»

5 Marzo 2020
La firma dell'accordo tra Usa e Talebani

Riduzione della presenza militare americana a 8600 uomini entro 135 giorni e ritiro completo entro 14 mesi; impegno dei Talebani a non “ospitare” in Afghanistan organizzazioni terroristiche impegnate a pianificare attentati all’estero. Questi i punti base dello “storico” accordo di pace firmato il 29 febbraio a Doha (Qatar) dai rappresentanti degli Stati Uniti e dei Talebani. L’intesa prevede anche il rilascio, da parte del Governo afghano, di 5 mila detenuti talebani e di 1000 prigionieri delle Forze afghane da parte talebana, da effettuarsi prima del 10 marzo, data fissata per l’avvio dei negoziati di Oslo tra il Governo di Kabul e i fondamentalisti. Questi ultimi controllano poco meno del 70% del Paese, il resto è nelle mani del Governo centrale guidato da Ashraf Ghani, riconfermato presidente dopo il voto contestato del settembre 2019. Se applicato, l’accordo potrebbe mettere fine alla guerra cominciata nel 2001 all’indomani dell’attacco di Al Qaeda alle Torri Gemelle, consentendo alle truppe Usa di rientrare in patria.

In Afghanistan oggi ci sono oltre 16 mila soldati sotto egida Nato (operazione Resolute Support per addestramento e supporto alle forze afghane), 8 mila dei quali americani. L’Italia è presente con 800 militari, 145 mezzi terrestri e 8 mezzi aerei: 54 le vittime dal 2001 in avanti.

Reazioni a Kabul

«Qualunque siano le motivazioni che hanno portato le due parti a firmare questo accordo, è un primo passo verso la pace»: così padre Giovanni Scalese, religioso barnabita che guida la Missione sui iuris in Afghanistan, commenta al Sir l’intesa. «Ma non è ancora la pace», precisa il religioso, che pone in evidenza il fatto che «nell’accordo non viene preso alcun impegno per un cessate il fuoco. Questo sarà oggetto di trattativa nei negoziati di Oslo, che non saranno certamente facili». Il presidente afghano Ghani, infatti, ha già tenuto a precisare che «l’annunciato rilascio dei prigionieri non può essere considerato previo ai negoziati, ma anch’esso oggetto delle future trattative».

In ogni caso, rimarca padre Scalese, «è un cammino che, per quanto difficile, prima o poi deve essere intrapreso, se si vuole giungere a una pace vera e duratura. Il sentimento che ci anima in questo momento, dunque, è quello di una grande speranza, consapevole però delle difficoltà che si frappongono fra una dichiarazione di intenti e i risultati effettivi».

Secondo il barnabita «il timore principale è che, una volta partite le truppe americane e Nato, la situazione possa precipitare e l’Afghanistan sia costretto a rivivere la tragica esperienza della guerra civile. Non ci si può quindi lasciare andare a ingenui entusiasmi; ma neppure dobbiamo lasciarci sopraffare dal pessimismo».

«Abbiamo pregato tanto in questi anni per la pace; non possiamo arrenderci proprio ora che si intravvede uno spiraglio di luce. Dobbiamo continuare a pregare – conclude – perché il popolo afghano, facendo tesoro dell’esperienza di questi anni drammatici, trovi il coraggio di dire un “no” definitivo alla violenza e inizi un processo di riconciliazione, fondato sulla giustizia e il perdono».

di Daniele ROCCHI