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Ricordo

Vittorio Gregotti: «La sfida più grande per un architetto? Costruire chiese “nuove”»

Il noto architetto milanese, autore di innumerevoli progetti in tutto il mondo, è morto lo scorso 15 marzo a Milano: aveva 92 anni. Lo ricordiamo con un'intervista raccolta alcuni anni fa che aveva per tema la progettazione delle nuove chiese.

di Luca FRIGERIO

17 Marzo 2020

«Qual è oggi il vizio capitale dell’architetto? Non c’è dubbio, la vanità». Sorride sornione Vittorio Gregotti, nome tra i più noti dell’architettura italiana contemporanea, autore di importanti progetti realizzati un po’ in tutto il mondo e voce spesso fuori dal coro. Da sempre interessato in particolar modo alle problematiche della “qualità urbana”, Gregotti ha lavorato in questi ultimi anni ad un progetto un po’ insolito per lui, la creazione di un nuovo complesso parrocchiale alla Baruccana di Seveso. Un’occasione per parlare di architettura sacra e di nuove chiese, di architetti e di “filosofie” del costruire.

Che ne dice, professore, delle chiese moderne costruite in questi ultimi cinquant’anni sul nostro territorio?

Dico che, in generale, mi piacciono veramente poco. La maggior parte di esse, infatti, sembra essere senz’anima, un puro esercizio formalistico. Padre Turoldo tuonava contro quelle chiese che sembrano garages e che allontano da Dio, e aveva perfettamente ragione. Però non è tutta colpa degli architetti…

E di chi allora?

Le gente, che troppo spesso protesta senza saper ben cosa vuole, ha anch’essa la sua parte di responsabilità. Si vuole tutto e subito, mentre non si capisce che costruire una chiesa, una bella chiesa, richiede molto tempo e molta pazienza. La chiesa è un edificio carico di significati simbolici, destinato a rimanere nel tempo, che deve essere usato dalla collettività: non si può avere fretta né nel progettarlo, né nel realizzarlo.

Ma cosa significa oggi, per un architetto, costruire una chiesa?

Significa affrontare una delle imprese più importanti, soprattutto per la difficoltà – tutta moderna – del rapporto tra l’edificio religioso e il resto della città, un rapporto profondamente mutato in questi ultimi decenni dal punto di vista monumentale, spaziale e di aggregazione sociale. La chiesa, per sua natura, esige una collocazione particolare all’interno del centro abitato, ma, a causa delle conformazioni urbanistiche esistenti, questo oggi non è più possibile. Per fare “valide” chiese, insomma, bisognerebbe riproporzionare prima l’intera sistema urbanistico.

Non a caso le chiese moderne meglio “riuscite” sorgono fuori dai grandi centri abitati, in luoghi piuttosto isolati, a contatto con la natura…

Certamente, perché evitano il difficile confronto con la città. Il rapporto con la natura, invece, funziona sempre. Se una chiesa viene costruita in mezzo ad un bosco o sulle rive di un torrente, è il luogo stesso a sottolineare e ad amplificare la sacralità dell’edificio religioso. Già negli Cinquanta e Sessanta, in verità, ci si era posto il problema di come risolvere questa situazione, e si era allora diffusa la “filosofia” della chiesa vista semplicemente come “casa tra le case”. Ma oggi una simile impostazione non è più accettabile.

Anche per questo molti architetti parlano di vera e propria “sfida” quando si tratta di progettare una nuova chiesa.

Sì, è una sfida, ma di tipo del tutto particolare. E questo perché realizzare un edificio sacro non presenta problemi legati allo spazio in quanto tale, ma al significato che a questo spazio si deve dare. Una sfida in cui entrano in gioco tutte le convinzioni personali.

Ritiene che sia essenziale essere credenti per realizzare una bella chiesa?

No, tutto sommato non credo che questa debba essere una condizione necessaria. Penso invece che sia fondamentale affrontare con la massima serietà un problema così delicato. E avere talento: un architetto di talento, anche se non è credente, realizzerà comunque una chiesa di sicuro valore. L’esempio di Le Corbusier è lampante, in questo caso. Oserei dire che è un problema di moralità.

In che misura è giusto rimanere legati alla tradizione e quanto invece va lasciato alla creatività del singolo architetto?

Bisogna trovare la giusta sintesi. Io ho un grande rispetto per la storia. Ma bisogna essere capaci di misurare la distanza tra le varie epoche storiche e noi, e lavorare su questa differenza. Con la tradizione dobbiamo saper dialogare, saper confrontarci, sia perché ci appartiene, ma anche perché è comunque un’altra cosa rispetto al presente.