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Quando Leonardo cercò di “curare” il «malato Domo».

Un'esposizione al Museo del Duomo di Milano ripercorre il rapporto tra il genio toscano e la cattedrale ambrosiana, attraverso i disegni del Codice Atlantico dell'Ambrosiana, ma anche studi e progetti di diversi architetti che parteciparono alla costruzione del tiburio. Un nuovo evento della Veneranda Fabbrica per il quinto centenario della morte di Leonardo.

di Luca Frigerio

5 Dicembre 2019

«Al malato Domo bisogna uno medico architetto». Così si espresse Leonardo da Vinci, che da quando era giunto a Milano, attorno al 1482, aveva potuto osservare da vicino il cantiere della cattedrale, in pieno fermento. Entusiasta e curioso com’era, pensò allora di poter dare il proprio contributo per la soluzione dell’annoso problema del tiburio. Ma il suo progetto non venne accolto, o più probabilmente lui stesso preferì non dare seguito alla sua proposta. Fatto sta che il Da Vinci si buttò in altre imprese: del resto gli impegni e le sfide non gli mancavano, nel ducato sforzesco…

Oggi è la stessa Veneranda Fabbrica del Duomo di Milano a riprendere e a raccontare nel suo museo quella appassionante vicenda, attraverso una grande mostra che si inserisce tra gli eventi promossi nel capoluogo lombardo per celebrare il quinto centenario della morte di Leonardo da Vinci, toscano di nascita, milanese d’adozione, cittadino del mondo. Una rassegna che presenta documenti e carte d’archivio, progetti e studi, opere d’arte realizzate per la cattedrale ambrosiana tra XV e XVI secolo, insieme a un percorso “immersivo” per far rivivere ai visitatori perfino l’atmosfera dell’epoca, segnata da una straordinaria vivacità creativa.

A un secolo dalla posa della prima pietra (che, com’è noto, data al 1386), il nuovo Duomo di Milano aveva già raggiunto le dimensioni previste, anche con le demolizioni dell’antica basilica di Santa Tecla e di una parte della residenza ducale. E mentre internamente procedevano di gran lena i lavori per gli altari e per le vetrate, rimaneva da affrontare la questione strutturalmente più gravosa e complessa, ma anche architettonicamente più spettacolare: quella della costruzione del tiburio, ovvero la copertura dell’incrocio tra la navata principale e il transetto, che soprattutto nella tradizione lombarda poteva assumere un aspetto particolarmente monumentale (come testimonia, ad esempio, l’amata “ciribiciaccola” dell’abbazia di Chiaravalle).

Per il completamento dell’opera, così, a metà del Quattrocento la Fabbrica si era affidata a due tra i più valenti architetti dell’epoca, chiamando un esponente dei nuovi orientamenti rinascimentali, il fiorentino Filarete, ma anche un rappresentante della consolidata scuola lombardo-ticinese, il Solari. Le due diverse visioni architettoniche, in realtà, invece di trovare un punto d’accordo finirono per ostacolarsi a vicenda (con il Filarete, come si legge nelle missive del tempo, che si lamenta che «poiché noi siamo fiorentini, loro ci fanno ripulsa», e i milanesi che ribattono che «questi fiorentini vogliono fare di testa loro, ma non sanno quel che se fasano»).

Forse anche per questo, nel 1481, alla vigilia cioè dell’arrivo a Milano di Leonardo, i fabbricieri del Duomo pensarono di rivolgersi all’estero, incaricando cioè un ingegnere attivo a Strasburgo che ben conosceva le problematiche delle cattedrali gotiche: Hans Nexemperger da Graz. Ma anche l’efficienza germanica non dovette sortire miglior risultato, visto che dopo una serie di proposte e di tentativi, con relativi pagamenti, la folta squadra transalpina se ne tornò a casa senza aver dato soluzione al problema.

In quegli anni, peraltro, alla corte degli Sforza era presente la massima autorità in campo architettonico: quel Bramante che, impegnato a realizzare il magnifico tiburio di Santa Maria delle Grazie, espresse la propria opinio anche per quello del Duomo, di fatto “demolendo” i progetti precedenti e scartando la pianta tonda («che camperebbe nell’aria», come annota), senza però avanzare una proposta davvero concreta.

Anche Leonardo, dunque, volle prendere parte a quello che può essere considerato una sorta di concorso internazionale d’ingegni. Alla Veneranda Fabbrica dovette fornire un progetto dettagliato, insieme a un modello ligneo («che risulterà utile a voi e a me», scrive). Tuttavia dei suoi studi per il tiburio del Duomo di Milano ci rimangono soltanto alcuni appunti: in mostra sono esposti i noti disegni conservati nel Codice Atlantico dell’Ambrosiana, dai quali sembra di capire che il maestro toscano abbia pensato a una serie di nervature per scaricare il peso sui piloni di sostegno, adottando forse una copertura a doppia calotta. Schizzi che oggi possono essere meglio compresi proprio attraverso una rielaborazione multimediale curata dal Politecnico di Milano.

Come sappiamo, non fu tuttavia il progetto di Leonardo ad essere infine attuato. Un fallimento, per il maestro del Rinascimento? Si può anche vederla così e sinceramente questa “bocciatura” ce lo fa sembrare più “umano”, e perfino più “simpatico”. Ma questa storia ci insegna anche che le grandi avventure, proprio come quella che nei secoli si è sviluppata attorno al Duomo di Milano, proseguono e si sviluppano ben al di là dei singoli “geni”, con l’apporto corale di molti talenti e con il sostegno davvero di tutti.

La mostra Il Duomo al tempo di Leonardo è visitabile fino al 23 febbraio 2020 presso il Museo del Duomo a Milano (piazza del Duomo, 12). Per informazioni: tel. 02.72023375, www.duomomilano.it