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Poesia

In morte di Valentino Zeichen.
Un po’ dandy, un po’ mistico

Nato a Fiume e poi trasferitosi a Roma nel 1950, è morto a 78 anni in una clinica della Capitale dove era ricoverato in seguito ad un ictus. È probabilmente uno dei poeti per eccellenza del nostro tempo, perché i suoi versi rivelano una pregnante carica profetica

di Marco TESTI

14 Luglio 2016

Cosa sarà mai la Borsa?
Un cielo stellato di titoli
assai volubili, effimeri
rispetto al firmamento.
Per decenza si è cambiato
il nome a tutte le stelle.
Nella notte di san Lorenzo
sulla volta di Wall Street
vedremo l’evento del secolo.

“La Borsa” è stata scritta da Valentino Zeichen il 12 agosto del 1998, un po’ in anticipo – praticamente dieci anni – sulla grande tempesta che ci ha messo in ginocchio. Ora che il poeta-dandy se ne è andato in una clinica romana dove era stato ricoverato in seguito ad un ictus, questa poesia – a modo suo profetica – ci suggerisce alcune considerazioni.

Non solo il dolore per una vita che se ne va in solitudine e in povertà (l’indigenza era un vero e proprio segno di distinzione del poeta), ma anche la necessità di andare oltre le classificazioni. Che a dire la verità non hanno stavolta “lisciato” del tutto il centro focale del poeta nato a Fiume nel 1938 e poi trasferitosi a Roma nel 1950, visto che qualcuno ha giustamente parlato non solo di ironia, di barocchismo, di aggressività nei riguardi dei miti stantii, ma anche di francescanesimo, o di radicamento nelle contraddizioni della contemporaneità. Perché quello che colpisce della scrittura di Zeichen è la sua apertura critica e indagatrice a 360 gradi sul mondo, dalle piccole cose ai monumenti di Roma e alle questioni planetarie.

Zeichen è probabilmente uno dei poeti per eccellenza del nostro tempo, proprio perché i suoi versi rappresentano tangibilmente tutte le contraddizioni di un mondo che sbandiera il salutismo e poi crea nuove forme di malattia, fino a toglierci “il coraggio/ di far saltare almeno un anello/ della micidiale concatenazione: prodotti nocivi/consumi”.

È difficile parlare di poeta neo-estetizzante o di un semplice dandy quando la sua voce affronta e combatte i falsi miti del nuovo materialismo, magari in modo fin troppo tranciante, e però ancora una volta a modo suo profetico, come quando, alludendo all’esito dell’ultimo conflitto mondiale scrisse che “i neoidealismi dell’Asse/ dichiararono guerra totale/ alle filosofie neopositiviste/ che la vinsero sul campo”, con il risultato, e Zeichen non simpatizzava certamente per il nazismo, che sui “mondi interiori/ calarono fitte tenebre”.

Se la sua carica demistificante non risparmia nessuno, bisogna dire che però nella sua poesia si trova, lo abbiamo d’altronde notato in apertura, una pregnante carica profetica e talvolta mistica, del misticismo devastante di chi riesce ad andare oltre la pubblicità, la persuasività di un mercato edulcorato e angelicizzato, spinto dalla assoluta necessità di vendere anche gli scarti per sopravvivere: “Il demonio aveva scacciato/ l’angelo dal podio poiché / voleva dirigerla Lui/ l’orchestra delle anime”.

Se la componente dissacratoria è evidente nei versi di Zeichen, essa di dirige anche contro i falsi miti, quei tentativi di sostituzione del divino con culti alla moda che ogni tanto si affacciano più sul mercato che nella profondità dell’anima:

Non è raro che in epoche
corrotte dal travestitismo,
imperi il manierismo mimetico,
e la persona ideale smani per
rivestire l’essenza spirituale e
assecondi i canoni dell’alta moda