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Arte sacra

L'”Ultima Cena” di Gaudenzio Ferrari

In Santa Maria alla Passione a Milano un capolavoro impressionante per la fedeltà con cui l'artista di Varallo, sul modello leonardesco, ha tradotto in immagine il brano evangelico del Giovedì santo

di Luca FRIGERIO Redazione

31 Marzo 2010

La tavola è imbandita, l’agitazione dei commensali quasi frenetica. Gesù ha appena annunciato che uno dei presenti lo tradirà, e gli apostoli, inquieti, si interrogano l’un l’altro, mentre qualcuno, portandosi una mano al petto, accenna a rivolgersi direttamente al Maestro: «Sono forse io, Signore?». Solo due figure non sembrano travolte da tanto tumulto: Giovanni, «quello che Gesù amava», che poggia il capo sulla spalla di Cristo; e Giuda, che sa bene a chi sono rivolte quelle parole, e che ancora stringe in pugno il sacchetto con i trenta denari…
È impressionante la fedeltà con cui Gaudenzio Ferrari traduce in immagine i brani evangelici della cena pasquale, nella sua pala per la basilica milanese di Santa Maria alla Passione, cogliendone ogni sfumatura, ogni dettaglio. Certo, il pittore di Varallo aveva uno straordinario modello a cui guardare: quel Cenacolo, cioè, che Leonardo da Vinci, cinquant’anni prima, aveva dipinto nel refettorio del convento delle Grazie a Milano. Di quell’opera sublime Gaudenzio riprende l’espressività dei moti dell’anima, rivestendo tuttavia la scena di un colorismo ancora più vivace, giocando su un efficace scorcio prospettico, dando alla composizione un dinamismo che è insieme elegante e vitale. Proprio come aveva imparato a fare, del resto, fra le cappelle del Sacro Monte…
Ancor oggi chi entra nella chiesa di via Bellini (accanto al Conservatorio), la seconda più grande di Milano dopo il Duomo, rimane affascinato dalla bellezza del dipinto del Ferrari. Ma in passato questa era addirittura una tappa obbligata per artisti e viaggiatori, una delle meraviglie irrinunciabili per chiunque si trovasse a passare per il capoluogo lombardo, come testimoniano le cronache e le guide del tempo.
Sulla mensa è presente il pane (sotto forma di quelle michette tipicamente milanesi), che sta per essere benedetto, spezzato e distribuito ai discepoli. E c’è anche il vino, versato in calici che richiamano proprio quelli in uso all’epoca nelle messe. Un vino di colore chiaro, bianco si direbbe. Nel Medioevo il vino adoperato nelle celebrazioni eucaristiche era rosso. Ma nel 1478 un viticoltore di Saluzzo riuscì a vinificare in bianco un’uva rossa, che incontrò il favore di Papa Sisto IV. Da allora cominciò a diffondersi, fino a imporsi, l’uso del vino bianco nella liturgia sia per una ragione pratica (si evitavano così le macchie particolarmente vistose sui paramenti sacri), sia per una questione dottrinale (si voleva cioè “scoraggiare” una troppo facile identificazione tra il colore rosso del vino e la sostanza eucaristica del sangue di Cristo, che è invisibile).
Particolarmente significativa, in questa pala di Santa Maria della Passione, è l’apertura sul fondo, da cui si intravedono alcune costruzioni di gusto rinascimentale. La posizione data nel quadro a questa “finestra” è così importante che, lo intuiamo subito, non si può trattare di un semplice elemento “decorativo”. Il tempio che si scorge sopra la testa di Cristo, infatti, allude certamente alla Chiesa: non, si badi, a un generico edificio cristiano, ma proprio al simbolo stesso della comunità dei fedeli, che ha il suo fondamento in Gesù (che infatti, anche visivamente, è alla base di quel tempio) e che si ritrova attorno alla mensa eucaristica nel suo nome («Fate questo in memoria di me»). Più che una struttura “reale”, quel sacro edificio sembra effettivamente emanato, evocato dalla figura stessa di Gesù, una proiezione appunto di quella Chiesa che avrà il compito sacramentale di annunciare e di rendere presente Cristo nella storia.
In grande evidenza sono anche i piedi nudi degli apostoli: si tratta di un richiamo al gesto della “lavanda” da poco compiuto da Gesù (quale lezione di umiltà e di amore fraterno), ma anche di un’anticipazione di quella che sarà la missione affidata a questi stessi discepoli, che presto dovranno percorrere le strade del mondo per annunciare Cristo Risorto («senza borsa, né bisaccia, né sandali»).
Davvero un capolavoro, questo di Gaudenzio Ferrari. L’ultimo che il pittore valsesiano dipingerà, attorno al 1545, che ci è consegnato dunque come il suo mirabile testamento artistico e spirituale. La tavola è imbandita, l’agitazione dei commensali quasi frenetica. Gesù ha appena annunciato che uno dei presenti lo tradirà, e gli apostoli, inquieti, si interrogano l’un l’altro, mentre qualcuno, portandosi una mano al petto, accenna a rivolgersi direttamente al Maestro: «Sono forse io, Signore?». Solo due figure non sembrano travolte da tanto tumulto: Giovanni, «quello che Gesù amava», che poggia il capo sulla spalla di Cristo; e Giuda, che sa bene a chi sono rivolte quelle parole, e che ancora stringe in pugno il sacchetto con i trenta denari…È impressionante la fedeltà con cui Gaudenzio Ferrari traduce in immagine i brani evangelici della cena pasquale, nella sua pala per la basilica milanese di Santa Maria alla Passione, cogliendone ogni sfumatura, ogni dettaglio. Certo, il pittore di Varallo aveva uno straordinario modello a cui guardare: quel Cenacolo, cioè, che Leonardo da Vinci, cinquant’anni prima, aveva dipinto nel refettorio del convento delle Grazie a Milano. Di quell’opera sublime Gaudenzio riprende l’espressività dei moti dell’anima, rivestendo tuttavia la scena di un colorismo ancora più vivace, giocando su un efficace scorcio prospettico, dando alla composizione un dinamismo che è insieme elegante e vitale. Proprio come aveva imparato a fare, del resto, fra le cappelle del Sacro Monte…Ancor oggi chi entra nella chiesa di via Bellini (accanto al Conservatorio), la seconda più grande di Milano dopo il Duomo, rimane affascinato dalla bellezza del dipinto del Ferrari. Ma in passato questa era addirittura una tappa obbligata per artisti e viaggiatori, una delle meraviglie irrinunciabili per chiunque si trovasse a passare per il capoluogo lombardo, come testimoniano le cronache e le guide del tempo.Sulla mensa è presente il pane (sotto forma di quelle michette tipicamente milanesi), che sta per essere benedetto, spezzato e distribuito ai discepoli. E c’è anche il vino, versato in calici che richiamano proprio quelli in uso all’epoca nelle messe. Un vino di colore chiaro, bianco si direbbe. Nel Medioevo il vino adoperato nelle celebrazioni eucaristiche era rosso. Ma nel 1478 un viticoltore di Saluzzo riuscì a vinificare in bianco un’uva rossa, che incontrò il favore di Papa Sisto IV. Da allora cominciò a diffondersi, fino a imporsi, l’uso del vino bianco nella liturgia sia per una ragione pratica (si evitavano così le macchie particolarmente vistose sui paramenti sacri), sia per una questione dottrinale (si voleva cioè “scoraggiare” una troppo facile identificazione tra il colore rosso del vino e la sostanza eucaristica del sangue di Cristo, che è invisibile).Particolarmente significativa, in questa pala di Santa Maria della Passione, è l’apertura sul fondo, da cui si intravedono alcune costruzioni di gusto rinascimentale. La posizione data nel quadro a questa “finestra” è così importante che, lo intuiamo subito, non si può trattare di un semplice elemento “decorativo”. Il tempio che si scorge sopra la testa di Cristo, infatti, allude certamente alla Chiesa: non, si badi, a un generico edificio cristiano, ma proprio al simbolo stesso della comunità dei fedeli, che ha il suo fondamento in Gesù (che infatti, anche visivamente, è alla base di quel tempio) e che si ritrova attorno alla mensa eucaristica nel suo nome («Fate questo in memoria di me»). Più che una struttura “reale”, quel sacro edificio sembra effettivamente emanato, evocato dalla figura stessa di Gesù, una proiezione appunto di quella Chiesa che avrà il compito sacramentale di annunciare e di rendere presente Cristo nella storia.In grande evidenza sono anche i piedi nudi degli apostoli: si tratta di un richiamo al gesto della “lavanda” da poco compiuto da Gesù (quale lezione di umiltà e di amore fraterno), ma anche di un’anticipazione di quella che sarà la missione affidata a questi stessi discepoli, che presto dovranno percorrere le strade del mondo per annunciare Cristo Risorto («senza borsa, né bisaccia, né sandali»).Davvero un capolavoro, questo di Gaudenzio Ferrari. L’ultimo che il pittore valsesiano dipingerà, attorno al 1545, che ci è consegnato dunque come il suo mirabile testamento artistico e spirituale.