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Ramallah.

4950 - per_appuntamenti Redazione Diocesi

23 Novembre 2009
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A Ram il muro passerà lungo la mezzeria della strada spaccando in due la città e costringendo i palestinesi a percorrere decine di chilometri in cerca di un valico autorizzato invece dei soliti pochi metri per recarsi al lavoro, a scuola, dal dottore o a far la spesa.

Mentre transitiamo, operai palestinesi guardati a vista da soldati israeliani stanno ultimando il fondo di sostegno su cui cementare i prefabbricati in cemento armato, che vediamo coricati a lato della carreggiata.
Non solo chi ha voluto il muro umilia e segrega i palestinesi, ma li costringe pure a costruirselo!
A lavori ultimati, lungo questa arteria si ergerà un imponente guard-rail alto otto metri che andrà a congiungersi alle barriere già in opera – vergogna e angoscia si legge in faccia agli amici della delegazione – al chek-point di Kalandia, attraversato il quale entriamo nei territori soggetti all’Autorità Palestinese prendendo la strada per Ramallah.

Ad accogliere la delegazione c’è il direttore generale del Consiglio legislativo palestinese, Mahmoud Labadi, e il deputato Emil Janoui, cristiano palestinese.
Il Consiglio è in carica dal 1996 in seguito agli accordi provvisori con Israele per la costituzione dello Stato palestinese. Il fallimento di tali accordi e lo strangolamento della mobilità interna con l’istituzione dei chek-point non permette di indire regolari elezioni per la costituzione di un parlamento effettivo, e quindi il Consiglio continua a svolgere le sue funzioni senza un mandato popolare diretto. Il problema del muro è l’argomento principale di cui si parla.

Per Janoui “i muri di pietra vanno contro la coesistenza pacifica e di buon vicinato, e non risolvono niente; sono le cause del conflitto che vanno rimosse, bisogna trovare una soluzione alla nostra miseria e al problema dei profughi, per i quali chiediamo che venga applicata la risoluzione 194 dell’Onu sul loro diritto al ritorno”.

Perché allora lo costruiscono?
La risposta non si fa attendere: “Non per paura di attentati, come sostengono loro, perché gli israeliani hanno armamenti nucleari e l’esercito più potente del Medio Oriente; di cosa dovrebbero aver paura? Si tratta di mire espansionistiche – aggiunge Janoui – che tendono a sottrarre ancora terra ai nostri territori. Nel 1947 la Palestina è stata divisa di due parti: l’80 per cento agli israeliani, il 20 a noi. Questo muro, a cui s’aggiungono gli insediamenti dei coloni, alla fine ci mangerà un 20 per cento della parte che ci è toccata, e quel poco che resta è frantumato, senza continuità territoriale”.

Insediamenti e muro hanno azzerato un’economia già precaria; la disoccupazione veleggia oltre il 60 per cento e più della metà dei palestinesi vive sotto la soglia di povertà. “Ciononostante – sottolinea Janoui – cerchiamo di vivere con dignità, puntando sull’educazione dei nostri ragazzi, pilastri del Stato di domani ”.

Sono quindici le università attive nei territori dell’Autorità palestinesi, e tra le scuole secondarie molte sono gestite dai cristiani.
La risposta, quando gli chiediamo di parlarci dei giovani kamikaze, arriva secca: “Noi condanniamo i suicidi volontari, siamo contro lo spargimento di sangue da entrambe le parti; ma per favore – ci chiede Janoui – aiutateci a fermarli, a fermare l’ondata di sangue”.
E ci congeda ricordando le parole del Papa: “Non muri, ma ponti”.
Claudio Mazza