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Fondo Famiglia-Lavoro

Bonomi: «Emerse altre forme di povertà anche femminili»

di Pino NARDI

21 Febbraio 2011
Al Centro Congressi della Fondazione Cariplo si è tenuto, alla vigilia della XXX Giornata della solidarietà il convegno Chiesa, crisi, solidarietà. Due anni di Fondo Famiglia Lavoro

«Il Fondo del cardinale Tettamanzi ha permesso di conoscere altre forme di povertà soprattutto femminile e delle donne straniere. Il Fondo ci segnala che, d’ora in poi chi vuole muoversi sul terreno della solidarietà, deve tenere conto che la situazione lavorativa è diversa: siamo tornati alla schiavitù e alla servitù della gleba oltre al capolarato. Il Fondo produce coesione sociale e mette assieme la comunità di cura con la comunità operosa». Il sociologo Aldo Bonomi, direttore dell’Istituto di ricerca Consorzio Aaster, durante il convegno del 12 febbraio, ha presentato la ricerca sul Fondo Famiglia-Lavoro realizzata gratuitamente e pubblicata sul mensile Communitas, da lui diretto.
Lo rilevano i dati della ricerca: 11 milioni e mezzo di euro (contando anche i 500 mila annunciati dalla Fondazione Cariplo), 6600 persone che vi hanno fatto domanda, oltre 5 mila che hanno avuto risposta. Il numero di richieste più alte da Rho, Monza, Varese e Melegnano, con più di mille domande: segno che le difficoltà economiche più grandi si sono verificate, spiega Bonomi «laddove esiste il capitalismo molecolare fatto di piccole e medie imprese». Sono prevalentemente famiglie a chiedere aiuto al Fondo: il 64% famiglie regolari, coppie con figli, sia tra gli italiani sia tra gli stranieri, che sono il 56,3% dei richiedenti. Stranieri anche questi regolari, che magari sono qui da anni, hanno un lavoro a tempo indeterminato, hanno fatto i propri progetti, ma perdono l’impiego e quindi devono rimettersi in gioco ancora una volta.
Sulla base della ricerca, «mi pare significativo riportare le ricostruzioni, effettuate dagli operatori dei Centri di ascolto della Caritas che si sono occupati del Fondo, degli atteggiamenti dei richiedenti aiuto». Racconta il sociologo: «Secondo gli operatori, il fatto che la maggioranza delle richieste di aiuto sia provenuta da migranti è certamente dovuta a una maggiore vulnerabilità sociale, ma è anche legata all’abitudine alla vulnerabilità, o alla possibilità di trovarsi a vivere situazioni critiche. L’accettazione psicologica dell’eventualità di trovarsi in una situazione di disagio rende più facile esprimere una richiesta di aiuto, mentre “il coraggio della miseria” degli italiani si accompagnava a un profondo senso di vergogna e di fallimento esistenziale».
Dunque, un approccio diverso: infatti «mentre gli stranieri si presentavano ai Centri di ascolto con la famiglia al completo esprimendo la propria richiesta con temperato fatalismo, gli italiani adottavano complicate tattiche di approccio: genitori che mandavano i figli in timida avanscoperta, richieste di appuntamento in orari che tutelassero i richiedenti dalla visibilità sociale, richieste di aiuto effettuate presso Centri di ascolto diversi da quelli del quartiere. Il tutto effettuato con toni drammatici, dignitosi ma disperanti, perché l’improvviso impoverimento materiale aveva messo a nudo la fragilità delle relazioni familiari e reso consapevoli i soggetti di cosa si nascondesse sotto il tappeto del benessere perduto».
Un plauso ai volontari, che hanno dovuto affrontare così situazioni molto delicate: «Il compito dei responsabili del Centro di ascolto si è rivelato ben più complesso della semplice compilazione di una domanda di aiuto, trasformandosi, talvolta, in un colloquio teso a far rinascere la speranza di futuro cercando di ragionare in termini empatici sulla dicotomia vulnerabilità-miseria, ovvero condizione comune-destino individuale. La testimonianza degli operatori ci dice peraltro come la questione sia tutt’altro che pacifica anche tra i migranti».