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Vita in comunità

Dal 19 gennaio, catechesi
in San Simpliciano

Secondo ciclo di incontri tenuti dal parroco mons. Giuseppe Angelini sul tema “I Padri della Chiesa latina”

15 Gennaio 2015

Al via da lunedì 19 gennaio il secondo ciclo di catechesi in San Simpliciano tenuto dal parroco mons. Giuseppe Angelini, professore di Teologia Morale presso la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale e già preside della stessa Facoltà.
Il tema scelto per questo secondo ciclo è "I Padri della Chiesa latina". Le serate saranno 5 e si svolgeranno nei lunedì dal 19 Gennaio al 16 Febbraio 2015 a Milano presso la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale, con inizio alle ore 21.

 

Presentazione di mons. Giuseppe Angelini

I temi privilegiati negli incontri del lunedì sono solitamente di due generi: quelli che si riferiscono al tempo presente e agli interrogativi che esso propone alla coscienza cristiana; e quelli che si riferiscono invece ai testi biblici e alla loro comprensione per riferimento al presente. Minore attenzione abbiamo dedicato, negli anni recenti, alla tradizione cristiana, a quella tradizione della quale siamo figli. Eppure essa merita d’essere considerata; noi siamo infatti come «nani sulle spalle di giganti».
L’immagine è stata spesso utilizzata quando, alla fine del Seicento, scoppiò in Francia la querelle des Anciens et des Modernes. La disputa si riferiva alla letteratura e alle arti in genere. Coloro che appartenevano al partito del ‘Antichi’ sostenevano che la creazione artistica dovesse imitare i modelli proposti dagli autori antichi; greci e romani che fossero, essi avevano raggiunto i vertici della perfezione; non rimaneva che imitarli. Illustra bene questa concezione Racine, che scrive tragedie su soggetti già trattati dai tragici greci. I ‘Moderni’ invece, rappresentati da Charles Perrault, sostenevano che gli autori classici non erano per nulla insuperabili; anzi, la creazione letteraria doveva superarli; per farsi interprete della nuova epoca doveva cercare forme artistiche nuove.
Siamo dunque nani che, se vogliono vedere lontano, debbono salire sulle spalle dei giganti? Oppure siamo nani che, per raggiungere con i loro occhi l’orizzonte più lontano, debbono abbattere gli alberi intorno, i personaggi troppo ingombranti cioè che, venerati da tutti, impediscono di pensare in proprio?
L’immagine dei nani sulle spalle dei giganti era stata proposta nel XII secolo da Bernardo di Chartres: «Bernardo diceva che noi siamo come dei nani appoggiati sulle spalle dei giganti», informa Giovanni di Salisbury suo discepolo; noi possiamo vedere più lontano di loro, non certo perché la nostra vista è più acuta, ma soltanto perché portati in alto appunto dalla loro alta statura. Soltanto dalla conoscenza della tradizione possiamo attingere le risorse che consentono di capire il presente.
Uno dei pericoli maggiori che minaccia il cristianesimo presente è – così mi sembra – proprio la saccenteria dei moderni. Un tempo essa era privilegio di filosofi e intellettuali in genere. Da quando i giornalisti hanno cominciato a sentenziare su ciò che non conoscono, ha ormai imparato a disprezzare gli antichi soltanto perché antichi anche l’uomo della strada. L’imperativo da tutti ripetuto, come stanca filastrocca, è che bisogna stare al passo con i tempi. Lo dice ormai anche il papa. O quanto meno glielo fanno dire i giornalisti.
La mia impressione è che la filastrocca dica il falso. È vero che bisogna considerare con molta attenzione il tempo nuovo in cui viviamo, e che per poterlo fare occorre correggere molte abitudini antiche di pensiero; ma occorre fa questo non per conformarsi al presente, ma per prendere le distanze da esso. Ci sono infatti tempi – e quello presente è appunto uno di questi – in cui il saggio tace, e così prende distanza da luoghi comuni con i quali non è possibile dibattere; il silenzio non è sempre indizio di ignoranza; talvolta esso è invece – come dice il Siracide (4, 20-22) – indice di sapienza più alta:

C’è chi tace, perché non sa che cosa rispondere,
ma c’è chi tace, perché conosce il momento propizio.
L’uomo saggio sta zitto fino al momento opportuno,
il millantatore e lo stolto lo trascurano.
Chi abbonda nel parlare si renderà abominevole;
chi vuole assolutamente imporsi sarà odiato.

In questi tempi diventa utile frequentare anche gli antichi, per staccarsi dai piatti luoghi comuni e restituire profondità di campo alla nostra visione del mondo.
Nel nuovo ciclo di incontri prevedo di occuparmi dei quattro grandi Padri e Dottori della Chiesa latina, che sono Ambrogio, Agostino, Gerolamo e Gregorio Magno. Ad essi aggiungerò il padre del monachesimo occidentale, Benedetto. Questi cinque personaggi hanno un rilievo fondamentale per rapporto alla nascita del cristianesimo latino; essi illustrano bene la qualità dei complessi e stretti rapporti che nell’Occidente latino legano la fede cristiana alle forme della cultura.
Ambrogio e Agostino vivono il confronto assiduo e anche polemico con la cultura pagana, che al loro tempo appare ancora viva; sono i massimi interpreti della distanza feconda tra la fede e cultura. Gerolamo fugge con insofferenza la città e la sua cultura; vive una vita ascetica e si rivolge soltanto nel Libro per cercare la verità che manca nella città. Gregorio Magno, pur venendo soltanto due secolo dopo, vive in un tempo nel quale il cristianesimo è diventato ormai egemone e senza interlocutori; annuncia in tal senso la nuova stagione medievale, quella della cristianità. Benedetto sta nel mezzo: in risposta alla fine ormai prossima del mondo antico, immagina una città alternativa, che sia come una scuola del servizio di Dio; proprio dai monaci nasce la missione evangelizzatrice d’Europa, e quindi la civiltà cristiana di cui siamo figli.
Viviamo fino ad oggi sulle spalle dei giganti. Ritornare a considerare in maniera esplicita la loro testimonianza deve aiutarci a interpretare la stagione che viviamo, quella della fine della cristianità, della fine dunque dei tempi in cui il cristianesimo era anche a livello civile la verità. La predicazione cristiana deve richiamare fino ad oggi tutti alla verità del vangelo, ma prendendo atto della distanza tra quella verità e le pretese verità del tempo.