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Gocce di cultura

Sándor Márai, L’eredità di Eszter

Adelphi edizioni, Milano 2004

Felice Asnaghi

28 Gennaio 2014

Lo scrittore ungherese Sándor Márai nacque nel 1900 a Košice, capitale europea per la cultura nel 2013.  Nella sua vita fu unvero cosmopolita, per motivi politici (nel dopoguerra i comunisti occuparono l’Ungheria) e di lavoro soggiornò in Germania, in Svizzera, in Italia e morì suicida nel 1989 a San Diego in California. Romanziere, scrittore, poeta, giornalista e drammaturgo, le sue opere appartengono di diritto alla migliore letteratura mitteleuropea del Novecento.  La sua fama è legata in particolare a due romanzi, “L’eredità di Eszter”, pubblicato nel 1939 per la prima volta, mentre la traduzione italiana è del 1999 e “Le braci” dato alle stampe nel 1942 e apparso in Italia nel 1998. Quest’ultimo libro la cui trama ruota attorno al calore di una passione che da fiamma viva si trasforma, appunto, in brace, pone nellamemoria il vero senso di sopravvivenza e di significato della vita.
“L’eredità di Eszter”, è un romanzo ambientato nella provincia, in un ambiente borghese e tradizionale, dove non c’è l’esigenza neppure dell’elettricità in casa. Una classe media che l’autore conosce bene perché parte delle sue origini e del quale ebbe a dire: “Vedo tutta la sua disintegrazione” e aggiunse: “Forse questa è la mia vita, unico scopo e dovere della mia scrittura: delineare il corso di questa disintegrazione ".
I personaggi in campo sono pochi: Laci il fratello, benché ormai sulla cinquantina è eternamente immaturo; Endre e Tibor gli amici, Nunu la parente che abita in famiglia e probabilmente l’unica con i piedi per terra, Gàbor ed Eva I figli di Vilma la sorella morta, Olga l’enigmatica donna che accompagna Lajos e poi il padre e la madre.
Il luogo d’ambientazione è la casa di Eszter.  Tutti e tutto ruotano attorno a Eszter e Lajos i veri protagonisti della storia.
La trama è semplice e intrigante.  Eszter, una donna sui quarantacinque anni ha vissuto una tranquilla esistenza, l’unico sobbalzo fu La passione con Lajos un giovane venuto dalla città che purtroppo sposerà la sorella e scomparirà dalla sua vita per vent’anni. Un giorno Lajos torna al seguito dei figli, dell’autista e di un’anziana donna (Olga) il cui figlio doveva andare in sposo a Eva. Viene con il preciso scopo di prendersi l’ultima cosa che non era riuscito a prendersi: la casa, cioè l’eredità di  Eszter. Lei, cosciente dell’inganno accetta e vede scomparire la casa e l’uomo che una volta aveva amato, ma che in realtà non aveva mai smesso di amare.
Lostile di Sándor Márai è inconfondibile, soprattutto grazie all’appropriata traduzione di Giacomo Bonetti: preciso, elegante, ogni parola è ben spesa e capace di suscitare sensazioni forti, anche se negative, anche se disturbanti. La lettura del romanzo non dà tregua al lettore essendo imperniata di tensione e desiderio e grande introspezione psicologica dei personaggi. Una trama dove i fatti si susseguono, velocemente, ma con un finale già scritto dal destino o dal fato, quasi non esistesse la facoltà del libero arbitrio. Il tutto si gioca su due parole: l’attesa e il destino.
Lajos, il protagonista maschile è quanto peggio una donna innamorata possa incontrare. Egli è il classico imbonitore, filibustiere, la cui attività è di vivere sulle spalle degli altri facendo leva sulla bella presenza, la parola sempre pronta e forbita e una naturale predisposizione alla cialtroneria e alla vigliaccheria. Egli è un mistificatore di prima categoria, leggendolo si prova di tutto: curiosità, preoccupazione, tristezza, malinconia, rabbia e risentimento.
Eppure sono proprio  le sue argomentazioni la parte migliore del libro. Memorabile il colloquio vis à vis con  Eszter quando con uno spregiudicato ragionamento la invoglia a firmare la vendita della casa.
Perle di saggezza verrebbe voglia di dire, sono le sue battute che inevitabilmente diventano sacre e non ammettono discussioni e che inchiodano colei che ascolta alla sua mercé.

«Due persone non possono incontrarsi neanche un giorno, prima di quando saranno mature per il loro incontro». Oppure: «Tu sei responsabile di tutto ciò che mi è accaduto nella vita. Tu sei profondamente legata a me anche se sai che non sono cambiato, che sono quello di prima, pericoloso e imprevedibile».

Eszter, la protagonista femminile, di primo acchito è un personaggio sconcertante, fuori da ogni regola del vivere normale, poi man mano che la storia prende corpo ci accorgiamo che lei impersona una donna reale. Certo c’è molta rassegnazione a quell’amore infelice, all’ineluttabilità di quel destino che suscitano comprensione e indignazione, ma in lei non viene mai a mancare la coscienza di quello che le sta accadendo tanto che all’inizio del racconto esclama:

«Non so che cosa mi riservi ancora il Signore. Ma prima di morire voglio narrare la storia del giorno in cui Lajos venne per l’ultima volta a trovarmi e mi spogliò di tutti i miei beni». Così alcuni passi del racconto fanno eco a questa scelta consapevole: «Nella vita esiste una specie di regola invisibile per cui ciò che si è iniziato un giorno, prima o poi lo si deve portare a termine» e segue: «Quel senso di allarme continuo che è stato l’unico vero significato della sua vita» cioè l’attesa del suo arrivo ben sapendo che Lajos «Mentiva come urla il vento, con una specie di forza primordiale, con allegria indomabile». Si sa «Gli amori infelici non finiscono mai».

Lajos, senza alcuna coercizione, ottenuta la firma della donazione dell’eredità, risale in automobile con tutto il gruppo d’imbroglioni e sparisce.
A Eszter non resta che osservare: «Più tardi, verso il crepuscolo, quando ci liberammo dall’incantesimo, ci guardammo sbigottiti, come se fossimo stati testimoni delle stregonerie di un fachiro indiano, il fachiro aveva lanciato una corda verso il cielo, si era arrampicato sulla corda ed era scomparso tra le nubi sotto i nostri occhi».
«Ma il vento, quel vento di fine settembre, che fino ad allora si era aggirato di soppiatto intorno alla casa, aprì con violenza i battenti delle finestre, fece sventolare le tende e, come se portasse notizie da lontano, sfiorò e mosse ogni cosa nella stanza. Quindi spense la fiamma della candela. È l’ultima cosa che rammento. Ricordo ancora vagamente che più tardi Nunu chiuse le finestre, ed io mi addormentai».

Un finale troppo scontato e per certi versi irritante. Non bastano le buone maniere, una discreta cultura, un gruppo familiare e degli amici per riempire la vita di gusto e significato.  Eszter ha atteso per vent’anni un uomo che tornasse eppure dopo averlo incontrato la sua vita non ha preso il volo anzi ha rischiato il precipizio. Probabilmente l’essere umano per sua natura, per vivere degnamente ha bisogno anche d’altro e di un Altro.
A Eszter è mancato un riferimento interiore che la guidasse nelle proprie scelte seppur emotivamente pesanti e complesse. Ha preferito illudersi e lasciarsi usare piuttosto che affrontare la realtà ed esigere il rispetto per se stessa. L’amore è reciprocità e cura e non interminabile attesa di qualcuno che non merita tanto. La realtà per quanto cruda è sempre il metro migliore con il quale confrontarsi.