Percorsi ecclesiali

La Chiesa dalle genti

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Sinodo minore, ecco lo strumento di lavoro

«Chiesa dalle genti, responsabilità e prospettive» è il titolo del testo (allegato e scaricabile) elaborato dalla Commissione di coordinamento al termine della fase di ascolto, che guiderà il discernimento dei Consigli diocesani

di Pino Nardi

21 Giugno 2018

Dall’ascolto al discernimento condiviso. È questo l’obiettivo dello strumento di lavoro per i Consigli diocesani elaborato dalla Commissione di coordinamento del Sinodo minore dal titolo «Chiesa dalle genti, responsabilità e prospettive». In 27 pagine infatti sono state raccolte e sintetizzate le riflessioni e le proposte giunte in Diocesi dalle tante realtà del territorio che hanno risposto all’invito dell’Arcivescovo, monsignor Mario Delpini.

«Dopo esserci ascoltati e aver ascoltato – si legge nel testo -, inizia con questo documento il momento del discernimento condiviso: i due Consigli diocesani (presbiterale e pastorale) sono chiamati a fare tesoro delle indicazioni emerse (constatazioni, suggerimenti, fatiche, intuizioni, prese d’atto); e a trasformare i tanti moti suscitati dallo Spirito in indicazioni che porteranno alla costruzione e alla deliberazione delle proposte da consegnare al nostro arcivescovo, nell’evento conclusivo di tutto il cammino sinodale, il prossimo 3 novembre».

Il documento, ovviamente, è un’utile lettura rivolta a tutta la Diocesi (il testo integrale è allegato e scaricabile). Il testo è suddiviso in tre parti: «Anzitutto raccontando come nella Diocesi si è percepito e condiviso il cammino sinodale, vissuto come vero e proprio momento di rigenerazione e rinnovamento del nostro essere Chiesa. In un secondo momento sono individuati e approfonditi i nodi, i punti di addensamento della riflessione sinodale, le acquisizioni e le questioni accese dalla riscoperta del nostro essere Chiesa dalle genti. La terza parte raccoglie e rilancia le proposte e le intuizioni emerse nella fase di ascolto, per rendere la nostra pastorale sempre più adeguata alla visione che guida il nostro cammino sinodale».

Innanzitutto si ribadisce il perché del Sinodo: «Abitare il nostro tempo, facendo tesoro di una realtà che da alcuni anni caratterizza la nostra società, cioè la presenza significativa di genti e di cristiani provenienti da altre nazioni e continenti e il loro crescente radicarsi sul territorio, per vivere in pienezza una delle dimensioni fondamentali dell’esperienza di fede, la cattolicità. Siamo Chiesa dalle genti! E lo siamo non soltanto in questi ultimi decenni, ma dall’inizio, da quando il cristianesimo ha abitato le terre milanesi e lombarde».

Quindi l’obiettivo è «ridare fiato e rilievo alla missione di raccolta dalle genti che è propria del cristianesimo: questa è l’intenzione spirituale che anima il Sinodo»

Ma quanti hanno partecipato nella fase di raccolta? Oltre 600 quelli arrivati nei tempi stabiliti. Più sentito il fenomeno soprattutto nell’area metropolitana e nei centri più grandi. Dalla zona I (Milano) sono pervenuti 146 contributi; dalla II (Varese) 96; dalla III (Lecco) 35; dalla IV (Rho) 76; dalla V (Monza) 83; dalla VI (Melegnano) 51; dalla VII (Sesto San Giovanni) 57. Riorganiz­zati per tracce: 22 dagli amministratori locali; 50 dagli operatori della carità; 31 dalle assemblee di presbiteri; 61 dal mondo della vita consacrata (singole comunità e istituti); dalle altre Chiese cristiane 10; dalle comu­nità di migranti 16; i consigli pastorali hanno inviato 237 contributi (104 parrocchiali, 52 di comunità pastorali, 39 decanali). Le associazioni e i movimenti ne hanno inviati 16. Il mondo della scuola e dell’educazione 110 (51 contributi collettivi, 64 insegnanti, 13 di gruppi giovanili e oratori). Alla traccia rivolta ai singoli hanno risposto in 44.

Il Sinodo ha “costretto” tutti a guardarsi intorno e scoprire che esistono già molte realtà di dialogo e collaborazione. «Le risposte raccontano di una percezione stupita di quanto già si vive: parecchi in modo sincero e spontaneo raccontano di avere scoperto una dimensione di Chiesa e di umanità con cui si vive da anni, di cui grazie al Sinodo si è presa consapevolezza. Ci si è accorti di una presenza di popolazioni diverse per storia, lingua e cultura, dando loro un volto, iniziando ad ascoltarle, riconoscendo legami già in atto ma poco valorizzati».

Un chiaro invito alla reciprocità

Esistono dunque tante realtà positive, anche se ancora non è stato superato l’approccio del “noi” e “loro”. «La logica del racconto è in parecchi casi quella del “noi verso loro”: noi attori di un’azione della quale i nuovi venuti sono spesso solo destinatari. Il confronto con il documento preparatorio ha portato molte realtà a interrogarsi su come rendere concreto il passaggio dal “fare per” al “fare con”, approfittando dei tanti luoghi di impegno già attivi (in particolare nell’ambito della carità) per trasformarli in laboratori di incontro e di costruzione di un nuovo soggetto ecclesiale (e, di pari passo, anche sociale)».

Ma quali sono le ricchezze da donarsi reciprocamente? «Dalla Chiesa ambrosiana si impara l’amore per la Parola di Dio, una vita di fede concreta e molto laboriosa, una pastorale che tocca tanti legami e costruisce una rete di relazioni che trasforma il quotidiano; da diverse Chiese venute in Diocesi si impara il senso di comunità, la cura e la partecipazione intensa alla celebrazione dei sacramenti – in particolare l’Eucaristia -, una fede espressa attraverso le emozioni, un coinvol­gimento del corpo, un’attitudine più contemplativa, una solidarietà meno organizzata ma molto capillare».

Una lingua e uno stile da imparare

Uno dei percorsi da compiere è quello di tradurre le buone pratiche in mentalità. «Il darsi di tante buone pratiche che già in­crociano le nuove genti in alcuni frangenti di bisogno (oratori estivi, doposcuola, centri di ascolto, scuole di italiano, associazioni e centri sportivi), ma che faticano a diventare cultura: non riescono a modifi­care i comportamenti e i modi di pensare di coloro che le incontrano o anche soltanto le intravvedono Dall’altro lato molteplici racconti di incontri personali che hanno cambiato la vita di persone e di gruppi indicano che quando si passa per l’esperienza concreta della relazione personale si genera nuova cultura, rispettosa e soprattutto ricca di sor­prese e molto promettente per futuri processi di accoglienza, integrazione/inclusione e di positiva convivenza».

Questo fenomeno nuovo, ma anche così antico, di accoglienza e integrazione di nuove popolazioni anche nella Chiesa, sollecita al rinnovamento di situazioni troppo spesso ingessate. «L’essersi interrogati sulle modalità di reale accoglienza dei mi­granti, in nome della fede, ha indotto però un provvidenziale “esame di coscienza” delle comunità, germoglio di una possibile e rinnovata conversione. Ci si è accorti delle rigidità, delle chiusure, di rapporti ancora troppo funzionali tra membri anche stranieri di vita con­sacrata e l’istituzione parrocchiale, tra presbiteri e laici, tra gruppi tradizionali e nuove aggregazioni, tra adulti e nuove generazioni. Il “fare”, spesso indirizzato a opere di carità e di intervento assistenzia­le, non si è spinto sino a diventare incontro tra persone, limitandosi a un più generico scambio di prestazioni e servizi, sfociando in qualche caso nel rischio della delega».

Perciò è necessario andare oltre per «meglio comprendere e valorizzare quella sorta di grammatica per essere Chiesa dalle genti che la commissione ha cercato di comporre, intrecciando i racconti dei cammini di alcune comunità: dalla indifferenza al vedere che ci sono; dal vedere e ascoltare all’aiutare; dall’aiutare all’accogliere dei fratelli; dall’accogliere nella logica noi/loro a una comunità nuova, dai mille volti; dal sentirci comunità al diventarne protagonisti partecipando alla vita delle comunità (consigli pastorali, catechesi, coro, chierichetti, lettori, educatori, animatori commissione liturgica…); dallo straordinario all’ordinario vissuto in una comunità dal volto evangelico, capace di accogliere e arricchirsi nelle e dalle differenze, capace di attenzione a tutte le fragilità».

Verso la condivisione

«Aver dato in uso chiese, cappelle, saloni… non ha sempre dato origine a processi di incontro e a cammini che si intrecciano. Aver accolto bambini negli oratori feriali, aver fatto qualche festa etnica non ha fatto crescere abbastanza la consapevolezza di essere insieme popolo di Dio. La ricchezza di strutture della nostra Chiesa ambrosiana è possibile oc­casione per nuovi processi di condivisione di luoghi il cui scopo non sia alloggiare, ma far incontrare, per attivare processi di condivisione e di reciproca assunzione di responsabilità di ciò che ci è dato».

Oltre la paura

Il documento certo non si nasconde anche le fatiche, i problemi, le paure alimentate dal dibattitto pubblico, politico e mediatico, che non possono non lasciare ampie tracce anche nell’ambito ecclesiale. «Per i molti che si sono lasciati coinvolgere nella fase di ascolto e confronto il cammino sinodale ha voluto dire imparare a vedere, sce­gliere di confrontarsi con un fenomeno che la cultura e soprattutto i media ci fanno percepire come indistinto e confuso, e proprio perché tale in grado di generare emozioni forti e contraddittorie, fino alla paura. Sui migranti la nostra cultura scarica molte nostre incoerenze, facendo loro rivestire la funzione di capro espiatorio».

Chiesa delle genti in una società plurale

Una Chiesa che cammina insieme diventa testimonianza efficace anche per la coesione sociale in una società frammentata. «Rientra in questa visione tutto il contributo che la Chiesa dalle genti è tenuta a dare alla società dentro la quale vive. La commissione ha colto con sorpresa la constatazione che nelle tante risposte arri­vate è quasi praticamente assente qualsiasi discorso di rilettura delle cause delle migrazioni. A fronte di un impegno caritativo diretto e capillare davvero esemplare manca la capacità di trasformare la carità in cultura, in revisione dei nostri stili di vita».

Ancora: «Una Chiesa dalle genti è chiamata a un compito di testimonianza, attraverso la capillarità delle sue comunità, di pratiche di dialogo e di riflessione capaci di favorire processi di incontro, buona relazione civica tra i tanti nuovi cittadini. Il buon vicinato, richiestoci dal nostro arcive­scovo Mario è lo strumento che ci consente di riaccendere una positiva ricerca del bene comune e della solidarietà in un’ottica di giustizia».

Per una pastorale adeguata al tempo è l’obiettivo della riflessione dei due Consigli diocesani. Tra le proposte suggerite dal documento quello di un luogo di «regia del cambiamento»: le «figure di aggregazione territoriale (comunità pastorali) e i decana­ti. Al consiglio pastorale diocesano il compito di individuare stru­menti per ridare centralità a questi luoghi. In particolare, il decanato si rivela come il livello pastorale di Chiesa più adatto per aiutare la trasformazione della Diocesi in Chiesa dalle genti, diventando luogo di lettura evangelica della realtà e propulsore dei cambiamenti, in ascolto delle tante buone pratiche già in atto».

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