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Intervista

Pastore sensibile
alla «sacralità» del lavoro

L'autenticità e la moderna di Montini emergono anche dalle sue frequenti occasioni di incontro con il mondo dei lavoratori. Ne parla Giovanni Bianchi

di Annamaria BRACCINI

12 Ottobre 2014

«Autentico e moderno». Quante volte negli scritti, nelle omelie, nei discorsi dell’arcivescovo Montini e, poi, di Paolo VI ricorrono e si rincorrono, perché vicini, questi due termini. Molte, moltissime volte, proprio perché sono molto più che aggettivi, identificando i due “soli” entro cui si muove la predicazione cara al futuro Beato, quella per una fede appunto più autentica, capace di essere “sale della terra”, di farsi annuncio e testimonianza feconda nel mondo del boom economico, non sempre comprensibile e compreso dai suoi stessi contemporanei.

Una realtà che, specie nella grande metropoli e nella “cintura” industriale – quando ancora Sesto San Giovanni era, agli occhi di tanti, la “Stalingrado d’Italia” – emergeva evidentissima. Nasce da questa consapevolezza quella urgente richiesta montiniana di una fede, di una Chiesa autentica, auspicate per un connubio fecondo e felice con la “modernità”, allora costruita essenzialmente sul lavoro: quasi la traduzione di quell’«Ora et labora» benedettino che non perde, attraverso i secoli, la sua forza tutta cristiana.

E torna alla mente l’omelia tenuta ancor prima di entrare a Milano, nel 1954 (ma era la festa di Sant’Ambrogio!) durante la Messa celebrata per cinquecento aclisti milanesi giunti a Roma per porgere un primo saluto. Frasi che sono, da sole, un intero progetto episcopale: «Se la Chiesa è interclassista, e perciò madre di tutti, è però vero che sta preferibilmente con coloro che sono più umili e più poveri. La Chiesa comprende i lavoratori, non è un freno, non ha gli occhi rivolti al passato ed è aderente ai bisogni che la storia viene presentando. Essa è giovane… State, dunque, con la Chiesa che vi è vicina, che vi dà le forme e i modi per l’espansione in tutti i campi: religioso, orale e sociale. Abbiate piena fiducia nella Chiesa. Il lavoro non è profano, è, a suo modo, una preghiera e una collaborazione all’azione di Dio. Il lavoro umano è sacro».

Il Pastore che conosceva la terra a cui era stato destinato, che ne aveva studiato e approfondito i caratteri peculiari anche molto prima di esservi inviato, che arrivava carico di attese e di speranze da parte degli ambrosiani di ogni ceto, intuì subito la straordinaria portata dell’evangelizzazione nei luoghi della produzione, nelle fabbriche, nelle aziende, nel contatto con l’organizzazione stessa dei Lavoratori Cristiani, le Acli. «Direi che il rapporto di Montini con il comparto del lavoro era iscritto nel suo stesso dna, nella sua origine bresciana, radicata in una terra tra le più avanzate dell’industrializzazione italiana del tempo e che presentava una forte questione e presenza operaia. Probabilmente anche il Magistero appreso e l’amicizia con padre Bevilacqua lo orientarono in questo senso», spiega Giovanni Bianchi, presidente delle Acli dal 1987 al 1994, politico del Partito Popolare, deputato per tre legislature e, non ultimo, nativo proprio di Sesto san Giovanni. E appunto da Sesto e dalla visita compiutavi dal neo-arcivescovo riprende l’analisi di Bianchi. «Appena tre giorni dopo il suo ingresso a Milano – il 9 gennaio 1955 – Montini arriva nella nostra città, in una prepositurale di Santo Stefano gremita: “Inizio qui il mio colloquio con il popolo milanese”, disse allora, avendo significativamente premesso: “È stato scritto di me che sono l’arcivescovo dei lavoratori e – cita a memoria Bianchi – io qui vi dico ‘Sì, sono l’arcivescovo dei lavoratori’. Nel silenzio dei miei studi e nelle vicende delle mie esperienze ho auspicato che un giorno mi fosse data la fortuna di poter dare a un popolo autenticamente lavoratore la mia parola di saluto e di speranza”. Mi pare evidente, da queste espressioni, quanto, in lui, entrato da pochissimo nella vita pastorale, fosse radicato il desiderio di confrontarsi con gente vera, alle prese per la grande maggioranza, con la realtà operaia».

Non a caso l’Arcivescovo, nella stessa occasione, affrontò anche il tema del rapporto, sentito fondante, tra la classe lavoratrice e la Chiesa…
Certo, e questo testimonia quanto il venire subito a Sesto – si può dire nelle prime ore del suo Episcopato – sia stata una scelta assolutamente mirata e avvertita come strategica. È un simbolo – per usare l’odierno linguaggio di papa Francesco -, di un Ministero che vuole avere inizio dalle periferie, dall’hinterland della cintura milanese. Lo chiamerei il “biglietto da visita” che Montini che ci ha lasciato e che ancora oggi ben definisce il suo profilo pastorale. Un’identità insieme ecclesiale e intellettuale, capace di coltivare il dubbio, ma non di essere, per questo, amletica, come fin troppo spesso si è creduto. Una personalità completa di sacerdote e di uomo al passo con i tempi e in grado di rischiare, a fronte delle sfide che il mondo lavorativo poneva, con il coraggio della fede, la forza del farsi prossimo, la razionalità illuminata delle sue matrici formative in cui tanto peso avevano avuto la cultura francese e Maritain.

Si dice che Montini fosse uomo riservato, che potesse apparire “distante”, ma le immagini degli incontri con i lavoratori, come il saluto al Villaggio Falck, hanno fatto epoca e raccontano momenti particolarmente sereni…
Sì. Ripeto: era sempre lieto di potersi trovare tra gente che, con fatica, reggeva ore e ore di lavoro in fabbrica. Proprio quella visita – siamo sempre nel primo anno di Episcopato milanese – offre il senso del suo essere vicino e amico dei lavoratori, pur sottolineando che «con l’odio non si crea, con la concorrenza e le leggi spietate dell’economia non si può far del bene».

Parole che sembrano scritte oggi…
Senza dubbio. Ripercorrere i suoi scritti e discorsi sul lavoro è un modo straordinario per riscoprire Montini, come è accaduto a me, per esempio, leggendo gli interventi pronunciati al Castello di Monguzzo durante gli incontri con le Acli di Milano, improntati sempre da grande calore. Ricordo, per esempio, che più volte disse apertamente «Vi voglio bene».