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Un caso di criminalità ecclesiastica nella Milano della seconda metà del Seicento

di Davide Adreani

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Se il don Abbondio di manzoniana memoria avesse avuto anche solo la metà dell’intraprendenza del suo collega di Trezzo (don Antonio Sagreda), è certo che i bravi di don Rodrigo avrebbero incontrato qualche difficoltà in più nell’eseguire gli ordini del loro arrogante protettore.

È la sera del 20 gennaio 1677 quando la riunione in corso nell’abitazione di don Antonio (tra i presenti vi erano diversi membri del clero locale: il parroco di Concesa Carlo Saccomani, i cappellani della prepositura di Trezzo Domenico Cavenaghi, Ambrogio Bernareggi e Carlo Federico Sagreda, fratello del protagonista della vicenda) viene interrotta dall’arrivo di Marco Antonio Comi (anch’egli di Trezzo), recatosi lì per incontrare il Saccomani.

Domandato dunque al padrone di casa se sapesse dove si trovasse l’ecclesiastico, pare che l’evidente falsità della risposta ricevuta (il Sagreda dichiarò di non averlo visto) abbia provocato la violenta reazione del Comi, cui fece seguito quella, altrettanto risoluta, dei due fratelli Sagreda. Lo scontro, inizialmente solo verbale, divenne presto fisico, e infine anche armato: la vista di Marco Antonio Comi che rivolgeva minacciosamente il proprio fucile contro Federico Sagreda o forse qualche parola di troppo pronunciata dal laico (“l’hò con tutti al C. al sangue, Preti b. f.”, almeno stando alla testimonianza del fratello Francesco) non lasciarono dubbi a don Antonio che, imbracciato prontamente il proprio archibugio, non esitò a servirsene meglio del proprio aggressore.

Il Comi, ferito alla gamba destra, tentò comunque di avere la meglio sfoderando questa volta una pistola, ma nulla poté contro l’agguerrito gruppo di ecclesiastici: mentre Federico gli sfilava l’arma di mano, il fratello assestava al malcapitato un vigoroso colpo alla testa con il calcio del proprio archibugio, ormai scarico.

La sortita tentata dal laico gli costò ben più di una sonora lezione: l’infezione contratta dall’arto offeso condurrà Marco Antonio, nonostante le cure del chirurgo, al decesso (sopraggiunto il 16 aprile 1677). Un po’ meglio andò invece a don Antonio, il cui gesto venne punito (la sentenza dovrebbe risalire al 2 agosto 1677) con una multa pecuniaria, la sospensione a divinis e l’esilio dai territori di Trezzo (pena da cui venne graziato dal Tribunale Arcivescovile il 5 dicembre 1679). L’ecclesiastico verrà infine pienamente reintegrato nei propri uffici (a seguito dell’avvenuta riconciliazione con il fratello della vittima) per grazia di papa Innocenzo XI il 31 gennaio 1686.

Il caso di Antonio Sagreda si inserisce nell’ampio campo di indagine (che solo di recente si è cominciato ad esplorare con sistematicità) teso ad esaminare il fenomeno della criminalità ecclesiastica in età moderna ed il suo relativo perseguimento da parte delle autorità religiose.

All’analisi di questa tematica ci si riserva in futuro di dedicare una ricerca più approfondita focalizzando l’attenzione sull’arcidiocesi milanese nella seconda metà del Seicento.

La documentazione di riferimento sarà chiaramente quella contenuta nell’Archivio Storico Diocesano, in particolare il fondo del Foro criminale, cercando di tener conto, per quanto possibile, anche di quella inesauribile miniera di informazioni rappresentata dal fondo delle Spedizioni varie (da cui appunto provengono gli incartamenti relativi al “caso Sagreda”).

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