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Intervista

«La Chiesa non abbandona gli “ultimi” tra i malati»

Sono le persone affette da malattie rare, di cui il 28 febbraio si celebra la Giornata. Di questa materia è specialista il sacerdote ambrosiano don Roberto Colombo, che ne illustra le peculiarità e racconta il suo duplice ministero, pastorale e scientifico

25 Febbraio 2018

La genetica moderna – la scienza che studia i caratteri ereditari, fisiologici e patologici – è nata nell’Ottocento grazie a un uomo di Chiesa, il monaco agostiniano Gregorio Mendel. Nonostante alcuni ritengano che scienza e fede siano antitetici o incompatibili, la Chiesa testimonia l’opposto, contribuendo al progresso scientifico e medico attraverso centri di ricerca e assistenza sanitaria dove lavorano laici e anche sacerdoti e religiosi cattolici altamente qualificati.

In occasione della Giornata per le malattie rare 2018 (28 febbraio) incontriamo don Roberto Colombo, prete ambrosiano ordinato nel 1989 dal cardinale Martini, professore ordinario della Facoltà di medicina dell’Università Cattolica presso il Policlinico Gemelli di Roma e specialista di genetica clinica delle malattie ereditarie rare, che presta servizio pastorale festivo in Milano, presso la parrocchia del Sacro Cuore alla Cagnola.

Quante sono le malattie rare e perché è importante per la persona e la società la loro ricerca e la loro clinica?
Le malattie rare sono quelle poco diffuse: ciascuna colpisce non più di 5 pazienti su 10 mila abitanti. Ne esistono circa 7000 diverse che, complessivamente, compaiono nel 3% della popolazione. L’80% di esse ha cause genetiche, ed è di queste che io mi occupo. Possono manifestarsi nel neonato o nel bambino, oppure in età adolescenziale e anche adulta. Sono caratterizzate da cronicità ed elevata mortalità, effetti disabilitanti spesso progressivi, complessità della gestione clinica e forte impatto emotivo su pazienti e familiari. Ma, soprattutto, sono in pochissimi a conoscerle e a saperle diagnosticare correttamente e curare appropriatamente. Servono competenze pluridisciplinari e approcci di équipe di livello internazionale d’avanguardia.

È per questo che talvolta i pazienti con malattie rare vengono chiamati “orfani”?
Il termine è improprio, ma allude al fatto che queste persone faticano a trovare chi si prenda cura di loro con competenza, esperienza e accoglienza umana integrale dei loro bisogni, che non sono solo di natura sanitaria, ma anche psicologica, sociale, culturale ed economica. Sono anche chiamati “pazienti migranti”, perché talvolta sono costretti a trasferirsi da una regione a un’altra per trovare un centro di riferimento per la loro malattia e, in alcuni casi, si recano anche all’estero. Per le famiglie povere, questa è una grossa difficoltà.

Esistono associazioni di questi pazienti e delle loro famiglie?
Si, e sono numerose, presenti anche in diocesi di Milano. Il lavoro dei volontari è prezioso per aiutare i malati e i loro cari a orientarsi verso un centro clinico di riferimento e offrire opportunità di incontro, dialogo, aiuto reciproco e amicizia tra pazienti con una stessa o simile malattia e le loro famiglie, che spesso vivono la sofferenza nell’isolamento o nella incomprensione dei vicini. Nasce così una solidarietà concreta e un’accoglienza reciproca, che sono di vero conforto e aiutano anche gli operatori sanitari a rispondere meglio alle loro esigenze.

Come coniuga il suo essere sacerdote e scienziato delle malattie rare al medesimo tempo?
La mia vocazione al servizio di Dio, cui sono grato e lieto ogni giorno per avermi chiamato, si è venuta declinando anche in un servizio ai più poveri di diagnosi e cura tra i malati, che oggi sono quelli con malattie rare. Sono gli “ultimi”, ma non abbandonati dalla Chiesa, e dell’attenzione di essa verso di loro io sono un umile strumento.